“È tuo il mio ultimo respiro?”: riflettere oggi sulla pena di morte

Di fronte a telegiornali e talk show intasati dai malaffari quotidiani della politica, parlare di diritti dell’uomo e di battaglie civili sembra oggi diventato quasi superfluo. Esempio di questa tendenza è il silenzio dei media su una questione che in molte parti del mondo è in realtà ancora di sconcertante attualità come la pena di morte. A rompere questo silenzio ci ha provato nel 2010 Claudio Serughetti con il film documentario È tuo il mio ultimo respiro?. Dopo il grande successo riscosso nel pubblico e nella critica al Festival di Roma di quell’anno, il documentario ha cominciato e continua a fare il giro dell’Italia e del mondo, nelle sale cinematografiche come nelle scuole. L’occasione di assistere anche a Varese alla sua proiezione è arrivata grazie a Filmstudio ’90 venerdì 12 e sabato 13 ottobre. Verrebbe da dire: meglio tardi che mai. Verrebbe da aggiungere: vista la scarsa risposta del pubblico, un’occasione sprecata, considerata poi la presenza venerdì sera in sala del regista pronto a raccogliere osservazioni e riflessioni (per l’intervista completa: www.cinequanon.it).

Documentario non banale che cerca nel contempo di informare, mostrare e far pensare. Lo fa mescolando le immagini dure delle esecuzioni con interviste rivolte alla gente comune, ma anche a volti noti del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo (tra gli altri Adolfo Perez Esquivel, Peter Gabriel, Dario Fo, Franca Rame, Marco Pannella, Oliviero Toscani, Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Padre Alex Zanotelli, Massimo Fini). Sarebbe sicuramente stato più facile dare in pasto allo spettatore le riprese scabrose di impiccagioni e fucilazioni di stato, suscitare l’immediata indignazione che inevitabilmente si prova di fronte ad una pratica barbara e antistorica, ma si è preferito cercare di spiegare, educare al dibattito. Rimane la pecca, ammessa dallo stesso Serughetti, di non essere riuscito a coinvolgere nel progetto i sostenitori “autorevoli” della pena di morte, e a risentirne è stata certamente la completezza del documentario. È tuo il mio ultimo respiro? è tuttavia un buon punto di partenza per tornare a discutere di una pratica che ogni anno provoca nel mondo migliaia di morti: secondo le stime di Amnesty International nel 2011 le vittime accertate sono almeno 676 (almeno 360 in Iran, almeno 68 in Iraq, almeno 82 in Arabia Saudita, almeno 41 nello Yemen, 43 negli Stati Uniti, 2 in Bielorussia), a cui si aggiungono i numeri impressionanti dei messi a morte in Cina (almeno 5000, ma probabilmente molti di più) dove il segreto di Stato non permette di elaborare stime attendibili.

Se i dati confermano l’attualità della tematica, il documentario di Serughetti si dimostra uno spunto per cominciare a riflettere, un’occasione per tutti noi, da sfruttare in particolare nelle scuole dove, come ci conferma il regista, gli studenti non restano mai indifferenti, si scontrano in accesi dibattiti e si dividono sulle possibili alternative alla pena di morte. Ma se è importante parlarne, è anche necessario andare oltre la mera oggettività di questi dati numerici, comprendere le differenze di un fenomeno che è intimamente legato al contesto culturale e politico in cui continua a sopravvivere. Già, perché la condanna a morte di un dittatore non è assimilabile alle esecuzioni sommarie eseguite in Cina anche per reati minori come il furto, perché le condanne che in alcuni regimi si richiamano, in modo più o meno giustificato, al Corano, c’entrano poco con la soddisfazione che si dà, negli Stati Uniti come altrove, al bisogno di vendetta che molti provano nei confronti di chi si è macchiato di crimini efferati. I numeri, sempre approssimati per difetto ma già tristemente impressionanti, restituiscono l’immagine globale della diffusione della pena di morte; le differenze sociali, politiche e culturali in cui si radica una pratica per noi forse incomprensibile sono invece difficili da raccontare e, ancor più, da mostrare. Il documentario ci prova facendo seguire all’ormai storica impiccagione di Saddam Hussein le fucilazioni di massa che avvengono negli stadi cinesi, accostando alla cruenta pratica della lapidazione con cui si punisce l’adulterio in Iran la raccapricciante possibilità di assistere alla morte del condannato negli Stati Uniti, ma È tuo il mio ultimo respiro?, inevitabilmente, è ancora soltanto l’inizio di una riflessione che ognuno di noi è chiamato a tenere viva. E allora forse ciò che manca al lavoro di Serughetti – e non potrebbe essere altrimenti vista la complessità del tema – è proprio la capacità di sviluppare le differenze insite in una pratica comune, indagandone il senso in base alle differenze che connotano la considerazione stessa dell’individuo, della vita umana, del diritto del singolo, in contesti culturali così distanti e così diversificati, in cui il concetto stesso di essere umano, va detto, ha valori e significati ben diversi. Una mancanza che, però, è anche l’invito ad indagare le ragioni che tengono in vita in contesti socioculturali così differenti una pratica che la maggior parte di noi non tarderebbe a definire “barbara”: un invito importante perché riflettere sul diritto, di cui spesso nel mondo il potere politico si avvale, di decidere della morte di un individuo, significa ricollocare nuovamente al centro della nostra attenzione i diritti civili che spesso diamo semplicemente per scontati, ma soprattutto, come ricorda uno degli intervistati, pensare la morte significa pensare di nuovo la vita, tornare ad indagarne il senso.

 Luca Scarafile