“Lo spazio conteso” parte integrante di una tesi di laurea a Scienze della comunicazione

Michela Floreani, stagista e collaboratrice del Notiziario delle associazioni, ha discusso il progetto “Lo spazio conteso” nella propria tesi di laurea triennale del corso di Scienze della comunicazione all’Università dell’Insubria di Varese.  Pubblichiamo integralmente il capitolo della sua trattazione, che ha riscosso la piena approvazione della commissione che l’ha esaminata, perché la sua ricerca può considerarsi come la sintesi definitiva di tutta la nostra indagine. Michela presenterà il lavoro nella serata in programma a Filmstudio’90 sabato 26 novembre alle ore 18.30

Lo Spazio Conteso

Lo “Spazio Conteso” è il progetto a cui ho partecipato durante il mio periodo di tirocinio, svolto presso la redazione web “Il Notiziario delle Associazioni”di Varese. Il portale del Notiziario riserva da sempre una particolare attenzione al territorio al fine di conoscerlo meglio, di difenderlo e di valorizzarlo. Per questi motivi la Redazione, guidata dalla competenza di un architetto urbanista e di esperti in comunicazione e cinema, ha costituito uno staff di giovani collaboratori e di stagisti universitari per presentare questo progetto alla Biennale dello spazio pubblico “Abitare al femminile”, tenutasi a Roma dall’11 al 14 maggio 2011 presso la Casa dell’Architettura .

Tale progetto  mi è sembrato sviluppare in modo molto concreto, sul terreno della città in cui vivo, riflessioni interessanti proprio sull’analisi dello spazio antropologico contemporaneo.

“Lo spazio conteso” si è proposto di studiare, sotto diversi punti di vista, gli spazi pubblici divenuti oggetto di contesa fra i vari gruppi che caratterizzano la composita realtà varesina e l’amministrazione comunale. Come emerge dalle osservazioni sul campo, lo spazio pubblico vanta riconoscibilità non solo per la sua natura giuridica, ma anche per la sua funzione sociale di coesione e per le sue qualità ambientali. Oltre agli spazi pubblici più “urbani”, quali piazzi, vie, stazioni …, è stato considerato nello studio anche il verde pubblico, attraverso gli occhi di chi lo vive e gli attribuisce un forte valore. Il progetto ha voluto cogliere lo sguardo delle donne, in quanto sono quest’ultime a connotare gli spazi pubblici portando “in una mano la spesa e nell’altra i loro bambini” e ad essere maggiormente penalizzate quando spariscono gli spazi verdi e i luoghi di sosta.

La città di Varese ha una composizione sociale e culturale sempre più complessa. Gli spazi pubblici all’interno del tessuto urbano stanno diventando oggetto di una contesa che riguarda prevalentemente le differenti modalità d’uso attuate dai vari gruppi dei quali si compone la popolazione.

Tra la primavera e l’estate 2010 nella città di Varese è emersa una serie di questioni sullo spazio pubblico. La prima è stata l’iniziativa, dell’amministrazione comunale, di eliminare due panchine in Viale Milano, in prossimità di un phone centre molto utilizzato dagli abitanti del quartiere di forte connotazione multietnica. Si riteneva infatti che esse stessero diventando un luogo di aggregazione per troppi stranieri che, in attesa di telefonare, restavano a parlare, disturbando la quiete pubblica. Delle due panchine ora non resta che un lungo solco,  quasi  un deterrente per altre future aggregazioni. Il problema non è stato comunque risolto, perché ora queste persone si siedono direttamente sul marciapiede, creando ostacolo ai passanti.

A questa eliminazione si è aggiunta anche quella delle attrezzature per barbecue che da anni erano state introdotte nel parco pubblico della Schiranna, estremamente frequentato per la sua vicinanza al lago. La motivazione ufficiale è stata la prevenzione degli incendi, ma di fatto si è tolta a molti gruppi di frequentatori, tra i quali numerosi sono gli stranieri, la possibilità di organizzare pranzi all’aperto, si è privato così il parco della sua connotazione di punto di aggregazione. E’ sicuramente vero che alcuni gruppi, spesso di ragazzi, e non solo stranieri, lasciavano rifiuti nel prato o non si dimostravano rispettosi del parco e delle attrezzature disposte per il pubblico, ma l’eliminazione è stata la soluzione migliore? Invece di annullare un luogo di relazioni non si sarebbero potuti assumere degli addetti al controllo dell’area barbecue?

La polemica sull’utilizzo degli spazi pubblici come luogo di ritrovo per gruppi di stranieri aveva già riguardato Piazza della Repubblica, frequentata prevalentemente da giovani maschi nord africani, per poi spostarsi su piazza XX Settembre, ormai tradizionale raduno di donne dell’est europeo. Nel primo caso si è focalizzata l’attenzione sul fatto che quelle presenze esclusivamente maschili potessero essere potenzialmente pericolose “per le nostre donne”; nel secondo caso, invece, l’accento è stato posto sulla concentrazione, in uno spazio pubblico ridotto, di un numero considerevole di “stranieri” (senza distinzione di genere).

Del progetto in questione ho deciso di trattare, più nello specifico, due casi emblematici di spazio antropologico : Il quartiere di Viale Valganna e le panchine della città.

Il Quartiere di Viale Valganna

Il quartiere sorto attorno al Viale Valganna era un tempo la periferia operaia della città. Tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’70, nel quartiere sono stati insediati tre complessi di edilizia economica popolare nella parte più vicina alla zona industriale che si snoda lungo il corso dell’Olona tra Varese ed Induno. Malgrado le profonde trasformazione della struttura produttiva della città, il quartiere di Viale Valganna sopravvive con la sua natura popolare, a cui si è aggiunta negli ultimi anni una caratteristica multietnica, che riguarda sia gli abitanti che gli esercenti di alcuni bar e negozi aperti recentemente. Le diversità linguistiche e nazionali, non solo quelle del quartiere, s’incontrano nell’area verde di oltre 4000 mq posta proprio nel mezzo del complesso dei palazzi. Qui sono stati realizzati un campetto da calcio ed un parco giochi. Lo spazio verde è frequentato da decine di giocatori, dai più grandi ai più piccoli, che ogni giorno si trovano per formare squadre di calcio e da mamme che osservano i loro bambini . Si tratta di un caso, non molto frequente in questo tipo di insediamenti,  in cui uno spazio verde ha favorito l’integrazione sociale, anziché la marginalità e la microcriminalità. Fortunatamente, quando gli abitanti hanno scoperto che faceva parte del piano di eliminazione comunale, si sono mobilitati con una raccolta firme e dimostrati talmente decisi a salvare “il loro territorio” che l’amministrazione ha dovuto abbandonare il progetto.

In questo caso lo spazio antropologico è rappresentato dal campetto. Esso è un nonluogo, secondo la nozione di Augé, perché non è né identitario, né relazionale e storico, e accoglie le persone in “transito”, in questo caso nel tempo libero. I giovani immigrati si ritrovano qui non solo con l’intento di giocare e fare sport, ma soprattutto per ritrovare le proprie origini, interagire, parlare la propria lingua. Così anche le mamme dei bambini al parco approfittano di qualche ora al sole per incontrare altre mamme del loro Paese. Il luogo di ritrovo del campetto e del parco giochi diventano per qualche ora al giorno “spazi” caratterizzati dalla mobilità e, per l’individuo immigrato, che si trova in terra straniera lontano dal luogo di nascita e dalle sue radici, diventa un “ritorno a casa”.

Lo stesso processo di aggregazione si è verificato con le panchine di piazza XX Settembre.

Le panchine

Le panchine rappresentano solo un particolare dello spazio cittadino, ma molto significativo perché dovrebbero offrire un ambiente confortevole di sosta e di aggregazione. A Varese, però, esse stanno diventando un “casus belli”. In questa città infatti le panchine  vengono rimosse per impedirne l’uso a determinate fasce della popolazione, oppure  vengono limitate a funzioni di “pubblico decoro” (le panchine monoposto), o sono utilizzate come luoghi  per inusuali gesti di generosità e di condivisione culturale.

Le panchine di piazza XX Settembre ospitano il variegato mondo delle donne provenienti dall’Est europeo, che genericamente trovano occupazione in città come collaboratrici domestiche. Si incontrano qui proprio perché sanno di trovare loro conterranee e di poter per qualche tempo parlare in lingua madre, per loro è come tornare alle origini. Ma c’è di più. Il fenomeno curioso è che la presenza di queste donne è talmente consolidata e conosciuta nella città che molte persone in cerca di una “badante” a volte vengono direttamente qui per sapere se qualcuna è disponibile. In questo caso uno spazio pubblico, come quello di una piazza, non solo diventa luogo di ritrovo di un determinato gruppo etnico, ma anche luogo di  reale integrazione nella società.

La sorte delle panchine di via Dandolo, invece, è  significativa della “modificazione” dello spazio pubblico. In questa strada infatti, dopo essere state tolte quelle tradizionali, sono apparse panchine divise in tre pezzi e disposte in modo che su di esse non ci si possa sdraiare. Si dice che l’amministrazione comunale abbia voluto così combattere il degrado di coloro che “bivaccano” negli spazi pubblici ed usano le panchine come giacigli di fortuna … Sostanzialmente sono divenute delle ”panchine monoposto”, dove ognuno si siede ma anche si isola, guardando gli altri a distanza, quasi con sospetto. E’ evidente la contraddizione del termine stesso “panchina” che, secondo la definizione del dizionario LaRousse, è un: “sedile per più persone […], posto all’aperto e fissato al terreno”.

Ci sono poi panchine sistemate in luoghi dove non è particolarmente confortevole sedersi, come in Piazza Giovine Italia, dove si sosta quasi in mezzo al traffico veicolare. Si tratta di una piazza che sembra pedonale, in virtù della pavimentazione, delle alberature e, appunto, delle panchine, ma che ospita anche un parcheggio per auto. E’ evidente quanto ormai sia difficile sostare in un luogo pubblico sedendo su qualcosa che non sia una sedia posta tra i tavoli del dehors di un bar o di una pasticceria.

Nel centro della città la nuova fontana di Piazza Montegrappa ha le sedute inglobate nel bordo, come se fossero stati aggiunti nuovi posti a sedere a quelli già disposti dai numerosi esercizi che circondano la piazza e che richiamano folle di ragazzi nell’ora degli happy hour e nei fine settimana. Più che un invito a socializzare e ad incontrarsi sembra leggersi il messaggio:  “sedetevi pure, purché consumiate”.

Le panchine, infine, arredano anche i centri commerciali varesini, sempre più simili ai mall di tradizione statunitense: una lunga via coperta, attrezzata con fioriere e panchine, sulla quale si affacciano i negozi. C’è chi, dopo aver fatto la spesa, sosta un attimo sulle panchine mangiucchiando uno spuntino appena comprato, oppure ci sono i mariti in attesa delle mogli che sono entrate nei negozi, o ancora anziane signore che si riposano un po’ prima di prendere le borse pesanti e avviarsi alla fermata del pullman. Tutte queste persone sono “collegate” dalla panchina, ma in realtà ognuna vive la propria vita e segue il suo programma giornaliero, utilizzando la panchina come una breve sosta per riprendere fiato e ritornare al vortice frenetico della quotidianità.

La panchina, da emblema dello spazio pubblico, dell’incontro, è sempre più confinata nei luoghi dove si vendono le merci, dove la sosta fa da corollario al consumo privato. Essa non può più essere intesa come un semplice  articolo dell’arredo urbano,  è invece diventata oggetto del contendere di visioni diverse dello spazio pubblico.

Un caso totalmente diverso riguarda invece le panchine del parco di Via Vannucci. Su queste panchine infatti si trovano curiosamente libri di vario genere e stile, che durante la giornata spariscono, ritornano, alle volte addirittura ne compaiono di nuovi. Questo fenomeno di “bookcrossing”, per dirla all’inglese, notato ed apprezzato da molti, è opera di un signore molto cortese e discreto che, uscendo di casa col suo cagnolino il mattino presto e nella pausa pranzo, si dirige al giardinetto con dei libri, a volte anche dei grossi vocabolari. Il Notiziario delle Associazioni è riuscito ad intervistarlo e a scoprire il perché di un gesto così spontaneo e solidale.

Il signore ha spiegato che aveva in casa più di 3000 testi e dal momento che a lui hanno insegnato che i libri non si buttano, ma si prestano o si donano,  ha deciso di metterli a disposizione della collettività. Come scenario della sua generosità ha scelto proprio dei parchi con le panchine (anche quello di Sant’Ambrogio) dove le persone possono rilassarsi e quindi leggere. Non ha inteso offrire  solo  un momento di relax individuale, ma anche un’occasione  per socializzare e per mantenere viva la comunità. Lo staff del Notiziario, incuriosito dal fenomeno,  ha approfondito la notizia e, durante un’uscita per un reportage fotografico del parco stesso, ha intervistato una signora che ha confidato non solo di leggere i libri ma anche di portarli in Piazza XX Settembre: “[…] dove ci sono sempre quelle signore dell’est. Sono libri buoni e belli, tenuti bene! Anche se penso ci siano dietro due persone, perché sono libri troppo diversi fra loro … “. Chi, invece, credeva fossero libri dimenticati e quindi li lasciava lì perché il proprietario sarebbe tornato a riprenderseli: “[…] vede, a saperle prima le cose!”.

Questa pratica non si è fermata, anzi, alcune signore la mattina scendono di casa con la borsa un po’ più pesante del solito, si avvicinano a una panchina e lasciano qualche libro. Alcuni sono di loro proprietà da una vita, altri li hanno presi in prestito proprio dal parchetto e li rimettono in circolo. La lettura è una passione a tutte le età e il gesto del signore che ha dato il “via” a questo fenomeno di bookcrossing ha ormai in città molti entusiasti imitatori.

Il Notiziario delle Associazioni ha pensato  di coinvolgere i cittadini varesini (ma anche gli amministratori) nel giudicare “il bello e il brutto dell’ambiente cittadino”. L’iniziativa sarà inserita nel progetto multimediale “Lo spazio conteso”, che verrà presentata prossimamente alla rassegna “Un posto nel mondo” di Filmstudio’90.

Il simbolo che si è adottato è proprio quello della panchina. La “panchina bianca”, per definire in positivo l’utilizzo di questo strumento urbanistico, va alle panchine di via Vannucci, dove l’intraprendenza di un singolo cittadino ha favorito la generosità e la condivisione tra i cittadini. La “panchina nera” è invece riservata a via Dandolo, con le costrittive e “disfunzionali” panchine monoposto volute  dall’amministrazione comunale.

Le panchine sono solo un particolare dell’arredo urbano, dello spazio antropologico fin qui analizzato, ma ciò che ho potuto cogliere nel progetto de “Lo spazio conteso”, è  proprio  come dietro un dettaglio della città, una “banale” panchina, ci siano in realtà complessità e “contese”, che svelano molti aspetti della nostra società. Da una parte il voler eliminare i punti di aggregazione delle diverse etnie, svela una certa resistenza all’integrazione, o perlomeno si tratta di un modo discutibile di affrontare il “problema”, se non contraddittorio perché  abbiamo bisogno di queste persone, e lo dimostra il caso di piazza XX Settembre. Anche le panchine monoposto favoriscono l’isolamento della persona, che, da sola, si siede e riposa, legge o lavora. Ma  l’individuo, se per individuarsi completamente, oltre all’immagine che ha di sé, deve entrare nel reticolo sociale, come può arrivare ad essere completo in una società che punta all’isolamento e alla singolarità?

Dall’altra parte c’è invece il gesto generoso e spontaneo di chi, usando proprio una semplice panchina, cerca di creare una “comunità”, legata dall’amore per i libri, un gruppo unito dalla stessa passione, che valorizza lo spazio in cui vive.